Gay & Bisex
012 IL CAMPO ROM
di CUMCONTROL
01.01.2020 |
11.417 |
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"Il capo clan si buttò a peso morto in un letto che svaporava di odor di muffa..."
Ho fatto lo schiavo per soli tre anni. Ho avuto padroni che mi hanno massacrato e poi venduto. Da master in master. Un mercimonio insomma assai in voga tra gli addetti ai lavori. Ma è molto difficile trovare questa meravigliosa catena di sant’Antonio. Ammettiamolo.E’ che tutto è diventato artificioso.. Croci, aghi, imbuti per il piscio. Questo capitalismo irrorato di artificio anche il suo stesso prodotto. La pornografia.
Ai miei tempi queste cose non accadevano. O meglio, accadevano ed erano più vere, se mi passate il termine. Certe circostanze, certi accadimenti, certe bramosie, avevano luogo nel silenzio, spesso del fottitore non se ne conosceva neppure il nome.
L’essermi prestato alla compravendita degli schiavi è stata per me l’edulcorato ricalco di un trascorso veritiero, in scenari che oggi ritroviamo artificiosamente ricostruiti nel calco della pornografia. Ma all’epoca lo stabbio era la mia immanente alcova, esalante di matrici bestiali e sensuali. Ed io ero suina.
L’odor di sterco, le mosche, i ricoveri per clochard o i ripari melmosi per cani randagi, e ancora i turgidi genitali da succhiare nelle masse unte di abiti dismessi, tutto questo io l’ho vissuto.
Sia chiaro che nella mia condotta squallida e libertina, io ho sempre cercato l’amore. Una contraddizione in termini si direbbe, non è così?
Ma voi ditemi, non è forse senza bellezza svegliarsi al mattino, sedersi in terrazzo col proprio lui, che dicendoti te lo meriti amore mio, ti piscia dentro nel cappuccino?
Ecco perché, piaccia o no, il mio cupio dissolvi si commette nel ricordo di quando quel giorno richiuso in un furgone, un nano leccava il deretano ad un giovane pony e, con esso, il mio.
Passava di culo in culo menandosi un fallo che aveva in sé qualcosa di mostruoso, come la sua deforme complessione dal volto di un babbuino. Nel chiuso di un furgone cosparso di paglia, canapa, pannocchie e il letame di un equino, si procedeva svelti, lontano… molto lontano.
Ero un ragazzo di buona famiglia a cui la vita aveva toccato in sorte di assecondare le insane voglie di un vizioso genitore. Non fu difficile per me offrirmi a mio padre, e fin che porgevo i favori delle mie carni alla sua libido sfrenata, tutto procedeva bene, con il compiaciuto benestare di mia madre.
Ma cosa vuoi, la sorte apparecchiò per me esiti malaugurati. Di lui, di mio padre, me ne innamorai.
Fu per questo che i miei genitori mi allontanarono. I miei sentimenti per lui minavano il campo armonioso di una famiglia per bene, e così fui trasferito in un collegio svizzero a pochi passi da Ginevra.
Non so quanto tutto fu dovuto al caso, fatto sta che in quel sinistro monastero il sedicente ordine religioso – mai riconosciuto dal Vaticano – che era incaricato di accogliere ed educare i rampolli di buona famiglia, faceva un uso inusitato degli allievi.
Noi tutti eravamo oggetto di un sentito disprezzo da parte di questi empi prelati.
Eravamo vessati, eravamo oltraggiati, eravamo violentati tutte le sere, in refettorio, dopo i vespri e per tuttala notte.
Per mia fortuna fui preso a ben volere da un precettore che per mesi mi sottrasse ai piaceri di gruppo e mi depose come un fiore nel calmo talamo del suo affetto. Me ne innamorai.
Ma l’amore… tutta la vita io ho cercato l’amore, ed ogni qualvolta io ne ho tentato le imprese, per colmo di malasorte ho finito col raccogliere solo disgrazie.
Il direttore scoprì la nostra liaison, e dispose l’allontanamento di entrambi. Mamma si oppose al mio rientro in famiglia, e così fu convenuto che fossi trasferito altrove. Un altrove sconosciuto.
Ecco perché mi ritrovai in una notte, legato nell’abitacolo di un furgone, nudo ed in compagnia di un pony.
Vi era una feritoia grigliata sul fianco del furgone che cercai di raggiungere per intendere di quel viaggio la direzione.
Ma non ci fu verso. Ero legato ai polsi e alle caviglie, nonché al collo, con un canapo teso e legato ad un appiglio saldato, che non mi permetteva minimamente di protendere oltremodo lo sguardo oltre quelle stesse grate.
Nel buio scorgevo filare veloci le cime arboree di montagne silenti. Poi mi accucciai e provai i brividi. Dove stava andando la mia vita su quelle ruote gommate...
Mi raccolsi nella paglia e chiusi gli occhi.
Sognai un uomo dal petto ampio che mi avvolgeva fra le sue braccia. Sognai di immergermi tra le sue braccia e come un cucciolo di mammifero infilavo il muso nella sua ascella.
E come cucciolo l’uomo baciava il mio capo, e quel sogno fu così dolce che pregai nell'inconscio di non svegliarmi mai più.
Poi sentii lo sferragliare dell'anta. Mi destai terrorizzato. Eravamo fermi in una piazzola. Vidi due uomini e parlavano di lingua straniera, di matrice slava, forse. Poi scorsi il nano, che balzò come una scimmia ed accese la flebile luce dell'abitacolo.
Il nano non perse tempo. Sollevò le crine del pony e prese a leccargli l’ano.
Io restai in silenzio, ammutolito dallo sconcerto. Il muso dell’uomo si imbrattava come di una fuliggine untuosa.
Stava calato e se una mano teneva alta la radice delle crine, l’altra smanettava la propria mazza invereconda. Si abbandonava a strazianti mugugni. Poi l’occhio si voltò a me, e passò al mio culo che leccò con smania roteando la lingua all’impazzata.
Poi si sollevò, si voltò al pony e compì l’atto indecente di sborrargli sulla faccia.
"Signore mi aiuti, dove stiamo andando” supplicai, ma il nano si ricompose in fretta, bussò alla portiera e gli uomini aprirono dal di fuori per poi imbracciarlo e farlo scendere dal nostro furgone.
La porta fu scaraventata e richiusa, e il motore del mezzo riprese a rollare.
Fu in quell'attimo che mi accorsi che il moschettone del polso destro era stato chiuso a metà sul traverso interno del telaio del mezzo. Riuscii a liberare la mano e con quella pure l'altra. La corda al collo riuscii a slegarla in fretta e così potei mettere il muso alla feritoia.
All'alba vidi sfrecciare illuminate città di pianura, una dietro l'altra, fino a lambirne una città molto più grande, illuminatissima e tremendamente estesa.
Era Milano.
Il mezzo rallentò la corsa fino ad imboccare uno svincolo ed immettersi su di una statale e da lì una strada secondaria in discesa che si fece poi sterrata con cumuli da discarica ai suoi lati. Poi tutto il mezzo prese a traballare paurosamente costeggiando l'argine di un fiume che nella luce dell'alba vidi scorrere pacato nel riflesso degli arbusti vicini.
Le fronde degli arbusti graffiavano la scocca del furgone, poi essi si dispiegarono nell'anfiteatro arboreo di un ampio piazzale bianco, pieno di roulotte e cumuli di rottame da cui si innalzavano sinistre colonne di fumo bianco.
Un campo Rom.
Vennero ai piedi del mezzo numerosi cani latranti seguiti da bimbi curiosi e già svegli in quelle prime ore del primo giorno. I cani abbaiavano scodinzolando e mi apprestai a rimettermi la corda al collo e sigillare un moschettone della mano sinistra mentre la destra ahimè fu libera.
Sentii un vociare forte e si sovrapponevano ordini in un etimo sconosciuto. La portiera fu aperta, il pony ed io fummo sciolti sia pure parzialmente.
Nella concitazione dei quattro uomini saliti sul mezzo nessuno s'accorse della mia mano libera. Quando fui in piedi fui di colpo trascinato fuori dal mezzo con la corda al collo, a guisa di guinzaglio, ed io, per non infliggermi patimenti oltremisura, trattenevo con ambo le mani parte di quel canapo.
Scesi dal furgone e mi tuffai in una folla di uomini, donne, vecchi, bambini e cani, in una baraonda senza senso. Temetti in un imminente linciaggio e due uomini davanti a me litigavano veementi chi dei due dovesse tirar la corda, così tra gli spintoni ed il chiasso dei curiosi fui trascinato dai due uomini con uno sgarbo inusitato.
Attraversai il piazzale e cresceva sempre più la gente ed il chiasso attorno a me. Vedevo le loro facce sogghignanti, i denti d'oro, ciabatte e ovunque un lezzo terribile di cesso e di immondizia bruciata.
Raggiungemmo una grossa roulotte ed usci un tipo zoppo che prese ciecamente a bastonare tutta quella massa, poi l'uomo afferrò la cima e mi trascino in dentro, chiudendo la portiera che attutì di molto tutto quel baccano.
Fui accompagnato fino al sofà e fui messo a sedere.
Chiesi un po’ d’acqua ma fui inascoltato, già che come ripeto nessuno in quel luogo par che intendesse il mio idioma.
Mi liberò finalmente il collo ed una grassa signora apparve da un angolo della roulotte e mi porse del caffè latte, ed un maglioncino fetido e caldo, solo quello. Nudo afferrai la tazza e la grassa signora col foulard intesta e denti d'oro mi sorrise.
L'uomo invece sedette al tavolo, levò via l'infradito e depose il piedone unto sul piano. Mi guardava.
Era un massiccio signore coi baffetti ingialliti dal fumo di sigaretta. Aveva certo un’aria non proprio raccomandabile, eppure quegli occhi di uomo non più giovane rimandavano una bonarietà vivida e vagamente sorniona. Portava capelli ben tagliati, si sarebbe detto che fosse l’unico individuo in quella comunità di selvaggi a portare una capigliatura propria del mondo civile.
Ma a tradire la civiltà ipocrita degli uomini per bene, quei capelli si facevano lunghi dietro alla nuca con alle estremità dei riccioli beffardi.
Indossava un gilet di pelle sopra il torso nudo.
Si toccava il pacco, mi fissava e non proferiva parola.
La grassa signora stava di schiena contro i fuochi friggendo delle frittelle ammorbanti già così di primo mattino e in tutto nell'abitacolo si mestavano effluvi di dolciumi, di lardo fritto, di abiti sporchi, di umido e di scoregge.
La porta si aprì di nuovo ed entro Knifo, il nano.
Knifo intrattenne col padrone di casa una lunga conversazione in un idioma che solo un orecchio poco attento avrebbe potuto definire slavo o romeno. Ma non era né slavo, né romeno.
La discussione si fece presso animata, la tipa friggeva, e presto i due presero ad urlare e gesticolare.
Il nano poi mi si accostò e afferrò il mio orecchio trascinandomi al cospetto dell'uomo seduto e col piede sul tavolo. Il nano mi ingiunse qualcosa indicando il piede del tale, io mi guardai attorno, vidi la rumenta accatastata ovunque e la culona che indifferente seguitava con la sua frittura restando di spalle.
Presi uno schiaffo dal nano che al fondo dell'indice mi indicava la pianta di un piede piatto, polposo e annerito dalla polvere.
Poi preso un secondo schiaffo e capii che dovevo leccare la fetta.
Già, mi sbagliavo. Quel piede non recava solo polvere ma si ammantava di un velo di patina biologica che mi si diffuse nel cavo orale quado deposi la lingua sulla pianta.
Deflagrò l’acre pungente di sudore, ma così pungente come quando ci si ficca in bocca un grosso cucchiaio di mostarda.
Sospinsi fuori molta saliva per mestare quel sapore aspro e quando con gli occhi varcai lo sguardo sulle unghia, m'accorsi mio malgrado che queste non erano affatto pulite.
Disciolsi i granuli di lercio fra le dita con accorti ritocchi di punta e il nano seguitava inspiegabilmente a percuotermi la nuca con una tale insistenza che la mia attività orale mi riuscì alquanto difettosa. Ero come dire… ero sbalzato ripetutamente ora per un verso ed ora per l'altro, e ammetto che fu difficile per me soffermarmi ora sull’alluce, ora nell’incavo del mignolo.
E la culona friggeva.
Poi fui afferrato per i capelli e piegato al pavimento per raggiungere l'altro piede imbrigliato nella sua improbabile scarpa. Il padrone di casa si limitò a sollevare le dita e non sfilò affatto il piede dal sandalo, leccai tra dita ed il plantare, lavandogli con cura la suola e levando via ogni rimasuglio per via di una insufficiente igiene plantare. So sincera.
L'uomo si accese la sigaretta e poi prese a calarsi la braca menandosi un fallo mai visto nella mia esperienza. Eppure di cazzi avevo un ampio trascorso ma quella minchia fu cosi voluminosa da suscitarmi timore, perché qualunque orifizio umano non avrebbe mai potuto offrirgli asilo caloroso per i suoi diletti.
Nudo come un verme adottai la strategia dello struzzo, non guardando in faccia il pericolo e dedicando tutta la mia dedizione al pediluvio accurato di quel claudicante.
Dopo attenta pulizia del piede, al quale non trascurai di curarne persino il dorso fino alla caviglia, l'uomo posò l'altro piede in terra, inforcò l'infradito e si sollevò in piedi menandosi ancora la minchia paurosa, larga come una lattina di birra.
La cicciona ultimò le frittelle e nello stesso olio calò quarti di baccalà impanato all'uopo.
Rimasi accucciato e l'uomo spalancò una tenda, io ed il nano lo seguimmo. Knifo, il nano adoratore dei culi lerci, chiuse le tendine dall'oblò, perché si avvide che di fuori venivamo guardati dalla gente strepitante del campo.
Intesi che ero al cospetto del capo, mica cazzi.
Il capo clan si buttò a peso morto in un letto che svaporava di odor di muffa. Dai jeans scuri svettava il totem che continuava a smanettare a due mani.
Salii sul letto, e ripresi il lavoro di lecchinaggio ai piedi levandogli entrambi gli infradito ma Knifo mi afferrò per il collo, sospinse il mio volto al cospetto dell’oscena carne eretta del gran capo.
Devo ammettere che visto l’afror pestilenziale del piedi mi sarei aspettato la vampa di una fogna viva soggiacere nel suo genitale. Invece no, con mia sorpresa la minchia era lavata.
Il mio problema però si pose comunque, poiché il diametro della mazza di carne mi risultava davvero ragguardevole, e la mia bocca, se mai fosse stata capace di ingoiarsi quel glande assurdo, avrebbe subito il danno un sicuro blocco ai miei tendini mandibolari.
A colpi di lingua mi misi allora a vibrare la testa del cazzo. Levigai le poderose creste, mi incuneai di lingua nella fessura dell'uretra, ed infine non trascurai i robusti testicoli che dalla patta fuoriuscivano belli come gioielli.
Par che quel mio incessante lavorio di lingua fosse gradito all’uomo, perché egli si abbandonò al piacere perdendosi tra i guanciali.
Prese a vellicarsi i capezzoli dopo aver aperto il gilet, e rilassate le cosce ebbe però l’impudenza di liberare una puzza che per un attimo mi lasciò senza parole, poiché l’esalazione mi tornava non tanto proprio di cesso, come sarebbe ovvio attendersi all’esito dello sgancio, quanto direi piuttosto di immondizia, si, di immondizia.
Mi chiesi cosa mai mangiassero al campo.
Siccome giacevo come una prefica a sbocchinare sull’uomo standomene bella che a mani giunte e con il culo all’aria, Knifo assestò meglio la mia posizione sul corpo del capo clan, perché potesse anch'egli trarre il suo tornaconto personale assaggiandomi ancora di culo su quello squallido letto nuziale.
Knifo, il nano, prese dunque a leccarmi il buco del culo, con una piacevolissima grazia devo ammettere, mentre io intensificavo la ritmica battente sulla minchia di quel capo branco. Poi, d’improvviso, l'uomo sputò viscidi corpi schiumosi di biascia sul palmo della propria mano e distese l'impasto sul dorso taurino della mazza.
La cosa prese a suscitarmi inquietudine.
Anche Knifo prese a sputare contro i miei glutei ed intesi con terrore che da lì a breve sarei stato penetrato.
Il terrore fu tale che mi voltai a Knifo contraendo l'ano, chiedendogli se non fosse possibile ritirarmi nel cesso per una corretta igiene rettale visto che erano trascorse ben 18 ore dall'ultima mia cacata.
Ero terrorizzato all'idea di sporcare, per quanto quel letto fosse un vero cesso.
Diciamo che volevo essere del tutto sicuro di me, ecco, per lasciarmi andare ovviamente ad una dilatazione estrema senza temere paurose perdite di materia digesta che avrebbe potuto ammalorare gli esiti della sorte. Non capita tutti i giorni di ficcarsi su per il culo una lattina di coca-cola.
Ma Knifo, benché fosse l'unico tra i rom minimamente in grado di parlare italiano, mi diede ad intendere di non capire.
Ero in panico.
Il capo rom non disse nulla ma voleva fottere.
Un'ora dopo fui io a stargli sopra, incredulo per esserci riuscito, avevo nel culo un cilindro di cazzo largo come una lattina. Ridevo e godevo, mi tiravo le chiappe col cazzo nel culo e ridevo estasiato guardando il soffitto. Stavo scopando con il gran capo del campo, ero il prescelto e nella gaia allegria di più e più orgasmi di culo mi ripetevo " Sono la first lady!".
Alle 15 giacevo esausto tra lenzuola sozze ma strillavo ormai di piacere cavalcandomi il re e dicendomi quanto stupida fossi stata a cercar l’amore. Era quello che volevo ormai e lo strillavo ai quattro venti in quella roulotte.
Urlavo di gioia e sincera proprio urlai quanto so cessa!
Avevo voglia di godere ancora e se tutto il campo fosse salito in roulotte per scoparmi a turno e per giorni interi, io sarei stato un uomo oltremodo felice.
Ero stato promosso. Ero una vacca.
Fatta e finita.
Finalmente libera ero.
Finalmente rotta.
Finalmente cessa.
HUNGARIAN RHAPSODY
Autobiografia di un libertino.
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